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   La dislocazione fisica e psicologica -che può interessare l’esistenza di ognuno di noi catapultandoci in ambienti diversi da quelli consueti, in cui si è cresciuti, ci si è formati e che sono finiti per divenire una parte di noi- ci porta a guardare il mondo e la nuova realtà con occhi diversi.

E allora sono i luoghi a diventare i protagonisti della nostra esistenza; luoghi che raccontano le storie meglio di chiunque altro.

Due sono gli attori coinvolti in questo processo: i luoghi e l’uomo che si rapporta ad essi mettendo in gioco la propria interiorità, i propri sensi, il proprio essere.

A chiunque sarà capitato una volta nella vita di sentirsi a casa in posti estranei per tradizione, storia famigliare e cultura e verso i quali si è stati condotti dalle contingenze della vita, luoghi che per una qualche forza che guida e trascina l’ inspiegabile, complessa ed inaccessibile esistenza umana, finiscono per appartenere alla nostra anima.

Molto spesso, infatti, trasformiamo i referenti geografici in spazi creati dal sentimento conferendogli un aspetto che è lontano dalla realtà, ma che è più reale di quanto non sembri. Questi vengono caricati di significato e diventano spazi creati dalla necessità di trasformare le proprie esperienze di sradicamento in posti confortevoli nei quali sentirsi a casa.

Ma quand’è che un luogo estraneo finisce per appartenerci e divenire casa?

La risposta è quella che Silvia Albertazzi trova nelle parole di una canzone di David Byrne: “Casa è dove voglio stare”[1].

La casa, allora, diventa un luogo che sentiamo così famigliare da sentirci un tutt’uno con esso e la natura che lo circonda, fino a perderci in esso per poi ritrovarci.

Nella “casa” ci si sente in armonia con sé stessi, i conflitti interiori si affievoliscono, le tensioni e le negatività spariscono.

Sì quella è la nostra casa.

E’ quel posto al ricordo del quale l’anima si placa e trova la sua dimensione ideale. E’ il posto in cui ci riconosciamo scoprendo una nuova parte di noi, la parte migliore, viva, che fino a quel momento era stata celata persino a noi stessi, in quanto credo fermamente che adattarsi ad un luogo significhi scoprire ed adattarsi a quella nuova parte del sé che fuoriesce scoprendo una nuova realtà.

Uno spazio dunque è percepito come casa in quanto l’uomo vi si rapporta con tutta la finezza dei suoi sensi. Finisce con l’instaurarsi un meccanismo di correlazione casuale per cui la forza del luogo è pari a quella dell’uomo che nelle sue insicurezze e nella sua fragilità riesce a trovarvi la forza di rinnovarsi e scoprire se stesso.

Da sempre ogni poeta ha decantato un proprio posto ideale, spesso linfa vitale per le proprie poesie e fonte d’ispirazione (basti pensare a Petrarca ed al rapporto esclusivo con la sua Valchiusa).

In questi luoghi si provano sensazioni che stuzzicano le nostre percezioni sensoriali e permettono di riconoscerne anche a distanza di tempo gli odori, i suoni, i sapori. L’aria è famigliare ed il posto è per noi come una fortezza sicura nella quale trovare conforto dopo una giornata passata nel tentativo di rincorrere i doveri quotidiani in quanto attori del gioco della vita.

Ogni realtà, nota o sconosciuta è uno spazio vissuto, quello di ogni individuo, con la sua sensibilità, le sue fantasie creative e ricreative. L’uomo anima lo spazio in cui è immerso, lo costruisce vi si proietta e finisce per amarlo ed odiarlo.

Emma Bovary (protagonista dello splendido romanzo di Flaubert Madame Bovary) troverà la morte nel piccolo contesto di provincia nel quale è immersa la sua fragile esistenza, un contesto odiato, alterato dalla percezione della protagonista che tenta di sopravvivergli creando una dimensione di vita alternativa che esula dalla sua famiglia, dalle sue responsabilità di moglie e madre. La donna rifugiandosi nella passione e in una felicità labile finirà solo per annientare se stessa e le persone che l’avevano veramente amata.

Così facendo Flaubert crea e inserisce i suoi personaggi in uno spazio reale che nella storia si sfaccetta, come la luce riflessa in un prisma, nei tanti personali spazi vissuti dei protagonisti e che finirà per influenzare i loro destini fino a fagocitarli ed annientarli.

I luoghi pur essendo concretamente uguali a sé stessi diventano così diversi a seconda del soggetto che li percepisce, ispirando amore o odio, appartenenza, sradicamento o disadattamento, perché è qui che consiste il loro fascino: riconoscerli e riconoscersi in essi.

Scrivo queste righe in apertura dell’articolo sul castello di Pacentro in ricordo di una piacevole conversazione con un amico che (venendo da un altrove poi non tanto lontano, ma con l’ansia e le aspettative che le sue responsabilità lavorative comportano) ha trovato, seppur per un breve periodo, la propria “casa” in questo piccolo borgo.

 

Il castello di Pacentro

Il castello si erge in tutta la sua bellezza alle falde del Morrone; per chi percorresse la strada che s’inerpica tortuosa fino al paese potrebbe trovarsi davanti ad uno spettacolo suggestivo e romantico, con il castello che svetta dal piccolo centro abitato nel quale è incastonato.

La fortezza faceva parte insieme a quelle di Pettorano, Introdacqua, Bugnara, Anversa, Popoli e Roccacasale dello scacchiere difensivo a controllo della Valle Peligna.

Storia del castello

La storia del castello di Pacentro è associata a quella più antica del borgo, le cui origini vengono fatte risalire al VIII secolo. Il primo signore di Pacentro fu Beraldo a cui seguirono i figli di Transarico di Balba. Dalla fine del IX secolo fino al XVI il territorio fu dominato dai di Valva. Negli anni seguenti, sotto i duchi Caldora- Cantelmo, il castello venne ampliato e potenziato diventando uno dei più potenti della ragione.

Il castello fu il protagonista ed il perno della lotta angioina contro  gli aragonesi (sostenuti da Sulmona) per il controllo del Regno di Napoli. In seguito alla sconfitta dei primi, il signore Antonio Caldora fu costretto a cedere le sue proprietà e conseguentemente anche Pacentro che passò alla famiglia Orsini. Con l’avvento della dinastia aragonese vennero apportate delle modifiche radicali che coinvolsero l’aggiunta delle torri cilindriche.

Il castello passò attraverso i Colonna, i Barberini ed altre dinastie per diventare nel 1957 proprietà comunale[2].

Struttura del castello

La struttura originaria viene fatta risalire al X secolo. Di pianta rettangolare, è formato da tre alte torri quadrangolari (originariamente erano quattro) che presentano una muratura in pietrame appena sbozzato, per quella di nord-est e nord-ovest[3]. Tra queste la torre più antica è quella di nord-est, realizzata con muratura a grossi blocchi squadrati, riferibile ai secoli XI-XIII[4].

Nel XV secolo, quando il castello passò alla famiglia Caldora, furono realizzate le altre due torri quadrate. Alla costruzione furono aggiunti successivamente degli ambienti su diversi livelli per esigenze abitative. I tre torrioni cilindrici, con scarpa nella parte inferiore, furono eretti per motivi di potenziamento, ossia in seguito al rafforzamento delle funzioni difensive della struttura grazie all’introduzione dell’ artiglieria. Al di sopra del redondone che segna l’innesto della base a scarpa al corpo cilindrico è possibile osservare degli stemmi in pietra che il tempo ha reso poco leggibili[5]. Le torri cilindriche risalgono probabilmente al 1483, quando la fortezza passò alla famiglia Orsini; le torri quadrate, invece, porterebbero ad una loro collocazione nel XIV secolo. Dall’analisi dei principali elementi della struttura si può affermare che sia il frutto di due diversi modelli di castello appartenenti ad epoche diverse.

La struttura ha subito nel tempo numerosi restauri: nel 1964 sono stati fatti lavori di consolidamento della torre di nord-est, nel 1974 delle altre torri, mentre  negli anni novanta è toccato a vasti ambienti della zona residenziale[6]. Tutti questi lavori hanno permesso di rendere parte della struttura visitabile e di poter apprezzare maggiormente questo suggestivo monile, offrendo al visitatore quel misto di natura, storia e vita umana, che è tipico dei paesaggi abruzzesi.


[1] Albertazzi 2006, p. 14.

[2] Latini 1997, pp. 118-129.

[3] Ivi, p. 118.

[4] Ibidem.

[5] Latini 2000, p. 106.

[6] http://www.seripubbli.it/paesi/Pacentro.htm.


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Bibliografia

Albertazzi Silvia, In questo mondo. Ovvero quando i luoghi raccontano le storie, Roma, Maltemi Editore, 2006.

Latini Marialuce, Guida ai castelli d’Abruzzo, Pescara, Carsa Edizioni, 1997.

Sitografia

http://www.seripubbli.it/paesi/Pacentro.htm.

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